IL CONFLITTO, DALLA LOTTA DI CLASSE AI NUOVI MOVIMENTI: E POI?
L’obiettivo del conflitto nella società moderna è la negazione della comunicazione. Poiché proprio società moderna vede in se stessa un sistema di eguaglianza, non si accorge che invece non accetta le disuguaglianze che ella stessa produce. La tradizione del sistema politico e sociale occidentale vede nella società stessa il concetto di conflitto, in due versioni, quella marxista e quella weberiana.
Teorie economiche e società a confronto
Entrambe si sono opposte alla teoria “funzionalistica” della società, criticandole di aver privilegiato, nell’ambito dei processi societari, quello di riproduzione rispetto a quello di conflitto. Questa accusa è infondata, poiché i due processi intervengono su diversi livelli societari e sono persino compatibili. Cio’ ha portato le tradizioni conflittualiste in una situazione di ambiguità e astrazione concettuale. La teoria “critica” di Marx poneva alla base della società la lotta di classe che ruotava intorno al concetto di “sfruttamento” da parte del capitalismo, puntato al plusvalore. Ciò ha portato unicamente al conflitto industriale tra classi, senza peraltro dimostrare l’esistenza di tale “sfruttamento”. La teoria “analitica” weberiana fu invece molto più concreta, ma al tempo stesso complessa. Questa sosteneva che alla base del conflitto sociale ci fosse la distribuzione diseguale del potere, il problema fu che non riuscì a dimostrare quale fosse la vera fonte di questa disuguaglianza. Ciò che mancava ad entrambe le teorie era un punto fondamentale: una disuguaglianza può diventare motivo di conflitto solo per un principio di uguaglianza. Ciò non presuppone che in una società senza uguaglianze non ci siano conflitti, bensì che questi assumano dinamiche differenti. Gli studi sulle società tradizionali hanno dimostrato come esse fossero strettamente gerarchiche e che i conflitti interni non derivassero da disuguaglianze, bensì da lotte che modificavano o riproducevano tali gerarchi, con lo scopo di ottenere più ricchezze e poteri.
Il conflitto della disuguaglianza dall’antichità alla società moderna
Ciò si contrappone in maniera evidente al conflitto sociale nella società moderna, basata (almeno sul piano ideologico) sui concetti di uguaglianza e giustizia. Da qui si deduce che il potere non è causa sufficiente dello scatenarsi di un conflitto, anche perché Stato e potere si identificano e si costitualizzano ai fini di difendere i diritti fondamentali dell’individuo. Quindi la vera diversità nel concetto di conflitto tra tradizionalisti e moderni sta nelle diversità culturali: nelle società tradizionali i conflitti gerarchici erano finalizzati ad una crescita di potenza su scala mondiale, su base imperialistica, mentre in quella moderna il conflitto è difendere la giustizia e quindi porsi contro gerarchie e disuguaglianze. Da qui la teoria che la causa primaria del conflitto stia nel linguaggio stesso. Qualsiasi affermazione può essere accettata o rifiutata e ciò condiziona il processo di comunicazione, nonostante la società moderna sia quasi obbligata all’accettazione. La negazione porta al conflitto solo se dimostra una verità o un miglioramento sociale. Ciò che lo scatena è come questa negazione venga sviluppata e quale innovazione socio-strutturale proponga. Di conseguenza emerge come la comunicazione sia la motivazione principale del conflitto, poiché quotidinamente si avrà da dissentire con qualcun altro. In questa prospettiva mezzi come denaro e potere sono moduli di controllo di questo “pericolo al disordine”, volti ad minimizzare la probabilità di un rifiuto; quindi non cause del conflitto stesso, ma metodi di contenimento. Purtroppo però il potere minimizza il rischio dello scontro, non lo elimina. Talvolta il singolo preferisce la sanzione all’accettazione di un comando. In questi termini si può parlare di potere come un induttore di consenso, ma nuovamente non una causa primaria del conflitto. Il potere è interno ad una forma d’ordine, ciò che cambia è come questa viene concepita. La limitazione del controllo del potere sul conflitto, e quindi la non eliminazione di quest’ultimo è dovuta ad un aspetto semantico: il potere tende a contenere il conflitto, cercando unicamente di inglobarlo in termini quali “eresia”,”usurpazione”,”sfruttamento”. Bisogna quindi cercare di distinguere le società tradizionali da quelle moderne sul piano semantico, in particolare nei concetti di “inclusione” ed “esclusione” delle persone. Le società tradizionali vedono se stesse come un unico complesso costituito da parti, coppie di concetti i quali sono uno il contrario dell’altro, ad esempio Greci/Barbari. Il valore negativo è quindi l’altro lato di questa distinzione, facente comunque parte dell’unità di concetti.
Concetti di inclusione ed esclusione nella società
Il controsenso sta proprio qui, ovvero i Greci escludevano i Barbari, quando per loro stessi erano inclusi nel tutto. Da qui il concetto si estende nella società tradizionale stessa nella forma delle caste, ogni casta esiste proprio perché esiste una fuori-casta, fondando però un complesso gerarchico. Gli opposti non sono antagonisti, sono la forma del mondo, identità e differenza. I Barbari esistono per essere sottomessi, per ripristinare l’ordine gerarchico. Quest’ultimo decide però anche inclusioni ed esclusioni, ovvero ognuno sta al suo posto per nascita e ne viene escluso solo se indegno. Questo ordine a strati è stato soppiantato nella società moderna da uno più strutturato, composto da sistemi funzionali specializzati in una funzione particolare, soprattutto a livello economico. Le gerarchie esistono solamente e livello organizzativo, nei sistemi produttivi e per differenze di prestazioni; ciò giustifica le diversità di ricchezza e posizione tra gli individui facente parte del sistema. Ciò elimina anche i concetti di inclusione ed esclusione: le famiglie devono accettare le scelte individuali, possono indirizzare ma non obbligare. Qui nasce però un paradosso: le persone possono adeguarsi alle richieste di un’organizzazione (lavorativa si intende), ma quest’ultima ha delle proprie esigenze remunerative e occupazionali e a sua volta deve adeguarsi al sistema in cui è inserita. Spesso domanda e offerta non coincidono, sia in termini di remunerazione che in quello delle competenze individuali. In questo passaggio nasce questo paradosso: la società nei suoi sistemi e complessi non può avvalersi di principi di inclusione ed esclusione, non può negare i beni primari all’individuo, escluderlo dai benefici costituzionali. Le prime esigenze individualistiche furono di sostituzione, utilizzando mezzi come riforme e guerre e cede la sovranità sull’uso della forza ai propri leader per assicurare legge e ordine: la società è vista quindi come una sorta di contratto politico. Successivamente con Locke si passò ad una ricerca della felicità tramite il lavoro fino ad Adam Smith, sostenitore del lavoro in quanto legittimatore della proprietà. Fino ad oggi, dove l’interesse individuale ha portato la politica alla dottrina del costituzionalismo, garante dei diritti personali dell’individuo. Con questo sistema non dovrebbero più esistere le esclusioni, dato il principio base di uguaglianza. Ma è qui che purtoppo interviene il paradosso sopra citato individuo-organizzazione-sistema e si creano emarginati che devono essere re-inclusi come eguali. Intervengono quindi i processi di sviluppo e le politiche di welfare che cercano di riavviare il lavoro, creare percorsi di istruzione e di assistenza sociale e sanitaria, le pari opportunità e il reinserimento psichiatrico. Purtroppo la società oscilla tra fallimenti e possibilità di sviluppo e da qui nasce il conflitto, gli individui reclamano diritti che non sono stati rispettati. Il conflitto è dunque una forma di comunicazione negativa, una protesta volta alla ricerca di un consenso. La ricerca dell’accordo è selettiva da entrambe le parti, in quanto entrambe possono negare ed è quindi fondamentale il concetto di “tema” come catalizzatore, un qualcosa che porti al raggiungimento di uno sviluppo o di una strategia funzionale. Ed è qui che nascono i “nuovi movimenti”, ben consapevoli che nel futuro lo sviluppo sociale porterà a nuove disuguaglianze e che la promessa dell’uguaglianza porterà a nuove proteste.
La comunicazione come interviene sulla società moderna
La difficoltà di questi movimenti sta proprio nella simmetria dell’uguaglianza e dal condizionamento dei mass media e dell’opinione pubblica, guidati dalla selettività degli argomenti di discussione in quanto “notiziabili” o meno. Ciò purtroppo porta al logoramento delle tematiche trattate, dovuto spesso alla frettolosa dimenticanza del tema in questione legato alla velocità dei mass media di cambiare argomento per mantenere alto l’interesse. La globalizzazione ha creato una “società del rischio”, ogni azione si presenta come una decisione veloce da prendere e una selezione tra alternative rischiose. Essendo però valutate come pericolose dall’opinione pubblica, da un lato crea una più ampia partecipazione alle decisioni, dall’altra produce un maggiore allarme sociale. La protesta ha quindi una funzione di segnale e porta la società in una direzione di mutamento, però verso un futuro incerto, a cui né la protesta stessa né la politica danno un vero senso di chiarezza.